Ringrazio SCP ITALY –Society for Coaching Psychology Italy– per l’interesse e per la possibilità di parlare ancora una volta dei temi cui tengo tanto. Un ringraziamento in particolare a Fabrizio Quintili che mi ha pazientemente ascoltato e per il prezioso scambio di competenze e sensibilità.
Riporto integralmente la sua trascrizione.
Intervista a cura di Fabrizio Quintili, consigliere SCP ITALY
Gianluigi Merlino ha portato in Italia, rendendolo disponibile a tutti, il gioco di simulazione gestionale noto come ‘THE BEER GAME’, sviluppato al MIT e giocato nel mondo ad altissimi livelli. A sostegno di questa sua “missione” di diffusione del pensiero sistemico nel 2014 ha pubblicato il libro “Il Grande Spreco – Progrediti ma non evoluti: introduzione al pensiero sistemico“.
Cura il blog “Spazio negativo” – https://gianluigimerlino.it
Il blog tratta di esempi pratici di applicazione del modello sistemico alle organizzazioni, ai fenomeni sociali, politici e di attualità.
Gianluigi sarà ospite di SCP in un workshop basato sul Beer Game il 4 novembre 2017.
Intervistare Gianluigi Merlino è stata un’esperienza sorprendente. Ha saputo illustrare l’utilità e la potenza del pensiero sistemico in un modo direi illuminante, tanto da farmi pensare realmente che la conoscenza approfondita di questa “quinta disciplina” (questo è il titolo che ha dato Peter Senge al libro forse più importante sul pensiero sistemico) sia irrinunciabile.
Come descriveresti la prospettiva sistemica?
Partirei descrivendo cosa non è. Sicuramente è il contrario della prospettiva analitica. La nostra forma mentis è educata a stabilire rapporti causali lineari tra gli elementi. I fenomeni invece prendono vita a seguito dei molteplici rapporti tra gli elementi in gioco e dalle regole di rapporto tra di essi. Guardare in una prospettiva sistemica i fenomeni significa allontanarsi dagli elementi del sistema per vederli in maniera più globale, leggere le loro interazioni per avere un quadro più preciso dell’origine di questi fenomeni ed avere più elementi per intervenire in maniera mirata sull’evoluzione del sistema.
Una caratteristica dell’approccio analitico è la rapidità con cui sembra possibile intervenire sulle cause. Estremizzando l’approccio analitico, in medicina si prevede come cura il farmaco, rapido e di semplice utilizzo. Il punto di vista sistemico è altrettanto semplice ed efficace nell’apportare benefici immediati?
La risposta è sì, non so se in maniera altrettanto semplice e dico questo perché il pensiero sistemico è piuttosto controintuitivo. Per noi è sicuramente più semplice, anche per come funziona il nostro cervello, affrontare le questioni dal punto di vista analitico. Quindi come comfort di attività di riflessione, di ricerca di risoluzione, noi sentiamo di essere più a nostro agio facendo analisi. Poi, che l’intervento di tipo sistemico su un problema sia più efficiente e più efficace, però, è altrettanto vero, forse a costo di qualche difficoltà iniziale un po’ più accentuata a proposito di come fare. Ma di sicuro l’intervento è molto più efficiente, è meno costoso, ed è molto più duraturo.
Hai presente il film Matrix? Hai visto quando a un certo punto uno degli operatori che stanno sulla nave non guarda la proiezione dei filmati di ciò che succede nella “realtà” ma guarda il codice alfanumerico sullo schermo? Alla domanda “ma perché non guardi i filmati e guardi il codice?”, la risposta è “io vedo la realtà attraverso il codice, non guardando le immagini”. I diagrammi con cui si rappresentano i sistemi e i fenomeni che li caratterizzano sono una sorta di codice che c’è sotto all’evolversi degli eventi. E sono sempre gli stessi.
A proposito di questo modello, stiamo parlando della teoria dei sistemi o di altro?
Sì, la base teorica è la dinamica dei sistemi complessi. E la prima ipotesi di una dinamica dei sistemi applicata in maniera trasversale alle diverse discipline dello scibile umano è codificata in un libro che è “Teoria generale dei sistemi” di Ludwig von Bertalanffy (1968). Il pensiero sistemico di fatto al momento non ha diverse scuole. Quando se ne parla si pensa al System Dynamics Group presso il MIT- Sloan School of Management (Cambridge, Massachusetts), che è l’università culla del pensiero sistemico. Quindi per ora riusciamo a parlare tutti lo stesso linguaggio. Troverai sempre un’unica scuola, un unico modello.
È un nuovo modo di affrontare le situazioni dinamiche complesse. Purtroppo tutto quello che ci circonda, la nostra stessa vita così come anche l’organismo umano, è un sistema dinamico complesso. Abbiamo due possibilità rispetto al sistema: o lo osserviamo e lo affrontiamo scomponendolo analiticamente, o lo accettiamo per quello che è nella sua complessità e anche nella sua difficoltà ad essere compreso, cercando di avvicinarlo e interpretarlo usando le leggi del sistema. Perché usare leggi analitiche per risolvere problemi di un sistema dinamico complesso? È come voler riparare la carrozzeria di un’automobile con ago e filo. È lo strumento sbagliato.
Questo è pertinente al business coaching perché testimonia della differenza dell’occuparsi solo del coachee o invece occuparsi del coachee inserito all’interno di un’organizzazione.
Esatto.
Ci puoi fare un esempio del modo in cui un coach potrebbe applicare praticamente questo modello?
C’è una premessa da fare: è una risposta che richiederebbe, per poter essere un pochino più consistente, di un po’ di grammatica del pensiero sistemico. Però rischiamo di farla diventare pesante.
Diciamo questo: anzitutto il piano dell’atteggiamento. Il coach (chiamiamolo coach sistemico, o facilitatore, o consulente, o chiamalo come ti pare…) che interviene all’interno di un gruppo organizzato, di un’azienda, se ragiona in termini di sistema anzitutto deve avere una posizione molto chiara.
Per prima cosa deve lasciare indietro le esperienze precedenti, che non vuol dire che ogni volta comincia da zero e che quindi la sua professionalità non cresce, ma semplicemente che il fatto che gli sembri di ricordare situazioni simili derivate da esperienze precedenti non vuol dire che abbiano la stessa dinamica. Quindi, il primo atteggiamento è sospendere il giudizio. E non deve “entrare” nell’azienda, non deve diventare un uomo azienda, altrimenti rischa di essere al contempo sia osservatore che osservato. Sai, quando frequenti troppo a lungo l’ambiente del cliente, non te ne rendi conto, ma cominci a diventare un uomo dell’azienda. Cominci a diventare uno che dà ragione o torto a qualcuno.
Seconda cosa, non devi porre l’attenzione sui singoli. Non sono importanti i singoli, quindi le persone nella loro individualità, o nelle loro singole capacità, ma sono importanti le relazioni che li legano gli uni agli altri.
Terza cosa, prima parlavamo del sospendere il giudizio. Se io sospendo il giudizio ma voglio fare un lavoro fatto bene devo imparare a fare domande di qualità. Le domande saranno tanto più di qualità quanto più io sarò privo di un giudizio iniziale e quanto più mi interesserò alle dinamiche e quindi alle relazioni. Non alle capacità dei singoli. Un’altra buona regola che mi sono dato è quella di evitare sempre, prima di qualunque intervento organizzativo, le schede del personale, profili psicologici, tabelle di merito. Tutte queste cose qua, io non le voglio sapere. Questo come atteggiamento iniziale.
Sul piano tecnico, invece mi viene in mente un metodo, fra i tanti che si possono utilizzare, che ti conduce a fare domande di qualità ed è chiamato Metodo “E”, come la congiunzione “AND”. È stato suggerito da Gene Bellinger (ndr: fondatore del progetto Systems Thinking World), uno degli esponenti più autorevoli della letteratura sistemica, e consiste nel porsi in maniera reiterata due domande durante la fase di indagine, quando cioè devo acquisire tutte quelle informazioni che so di non avere. La prima domanda è: “E su questo elemento cosa influisce?”. La seconda: “E su cosa altro influisce questo elemento?”. È la prospettiva circolare: io non solo influenzo il sistema, ma il sistema è influenzato da me. Questo è proprio un’evidenza data dal Beer Game, fra l’altro. Per esempio, quando mi viene sottoposto un problema o addirittura una persona “problematica” a me non interessa capire che cosa faccia nello specifico quella persona, ma su cosa influisce quella persona e da cosa è influenzata. Poi, a ognuna delle risposte riapplico ancora il metodo, perché nel pensiero sistemico si impara che causa ed effetto sono lontani nello spazio nel tempo. Quello che sta accadendo oggi non è nato ieri. E se mi dovessi concentrare su quello che sta accadendo oggi cadrei nell’errore che dicevi tu prima: ho il sintomo di una malattia, curo il sintomo (quindi la classica pillola del metodo analitico) che lascia indietro l’origine primaria del problema. Magari ho il mal di testa ma il mio mal di testa dipende da una disfunzione epatica, che a sua volta mi deriva da una cattiva alimentazione, che a sua volta mi deriva da una condizione economica disastrosa. Ok? Quindi io potrei prendere tante pillole ma se non cambia la mia alimentazione non starò mai bene. Ecco quindi il metodo “E”. Su cosa influisce questo elemento e cosa influisce su questo elemento.
Questo è molto interessante. Nel senso che io capisco che c’è proprio una traduzione del modello nella tipologia delle domande che tu fai, è corretto?
Sì. Il concetto di modello è particolarmente importante nel pensiero sistemico, come in tante discipline che ci aiutano a comprendere meglio la realtà. Nel pensiero sistemico lo è ancora di più perché quando entri in un gruppo organizzato, e, parlando più ampiamente, in un problema di qualsiasi natura (ambientale, ecologico, politico, sociale, individuale, ecc.), sei alla ricerca di strutture di causa ed effetto, di strutture circolari, di diagrammi proprio di causa-effetto. Una volta esistevano i proiettori di lucidi. Immagina di avere tanti lucidi con delle mappe, dei diagrammi, e quei diagrammi tu li appoggi sulla realtà. È come inforcare un paio di occhiali alla ricerca di quelle dinamiche, di quei flussi di causa-effetto, ripetuti e ciclici, all’interno del sistema che stai osservando. Quindi modelli. La cosa che ha un po’ del magico, quando cominci a frequentare la dinamica dei sistemi complessi, è che scopri che questi modelli sono gli stessi di un qualunque altro tipo di sistema: economico, politico, biologico, sociale, ecc. Quindi il concetto di modello è particolarmente azzeccato in questo caso.
Ci puoi fare un esempio di beneficio pratico dato dall’uso di questo modello?
Qui mi riallaccio ai due benefici più eclatanti, veramente i più concreti e di grande peso di un approccio sistemico alla risoluzione di un problema.
Il primo è quello dell’abbattimento del costo, e per costo non intendo la fattura che il coach presenta all’azienda ma il costo inteso come resistenza dell’ambiente, costo umano, costo di disaffezione, costo di resistenza al cambiamento che c’è sempre quando si fa un intervento organizzativo. E altri costi ancora, c’è un abbattimento delle performance, c’è, in alcuni casi (negli interventi più profondi), un po’ di turn-over perché le cose cambiano tanto e quindi si perde equilibrio. L’intervento sistemico è assolutamente rispettoso delle forze già presenti nel sistema. Anzi cerca di usare quelle forze per arrivare a meta. È assolutamente azzeccata la prima tua immagine quando ti riferivi all’organismo umano. È come se io volessi aumentare le difese immunitarie dell’azienda, non somministrare nuovi farmaci. Voglio che l’azienda faccia da sola.
E il secondo beneficio, altrettanto importante, è che è molto più duraturo. Perché un intervento sistemico non è di tipo correttivo: nella migliore delle ipotesi è di tipo evolutivo, ma di sicuro deve essere al minimo di tipo generativo. Il mio primo obiettivo quando entro in azienda è quello di rendermi inutile il prima possibile. Rendere inutile quelli che fanno il mio lavoro. Quello è il mio obiettivo. So che è in controtendenza, perché sembra che uno non bada ai propri interessi, ma io devo assolutamente affrancare l’azienda dalla dipendenza di un elemento esterno. E con l’approccio sistemico questo lo ottengo molto di più perché fornisco strumenti che generano soluzioni al loro interno anche quando io non ci sono. E quindi è molto più duraturo. Certo, ci posso “giocare” sopra: il costo più alto del consulente che opera in questo modo è ampiamente ripagato dai benefici duraturi. Quando l’azienda segue il programma difficilmente avrà bisogno di un nuovo riassetto. Perché sarà generativo. Questi sono i due grossi tipi di beneficio. Minor costo, minor sforzo e maggior durevolezza del risultato.
Senti, rispetto a ciò che dicevi prima sulla resistenza del sistema mi viene in mente che questo è sicuramente un aspetto critico molto importante, e cioè che i sistemi tendono all’omeostasi e quindi a rigettare interventi puntuali. È corretto quello che dico?
È perfettamente corretto. Esattamente questo, i sistemi tendono a rigettare.
E quindi è importante approcciarli nella maniera giusta, sostanzialmente.
Fa parte dell’atteggiamento iniziale del coach sistemico. Grande rispetto del sistema che stai osservando, non che ti sta “ospitando”. Perché come dicevo prima è essenziale cercare di non farti ospitare dal sistema. Devi mantenere lo sguardo il più possibile esterno.
Mi viene in mente che il coach diventa elemento del sistema nel momento in cui inizia a pensare “quello mi sta simpatico, quell’altro mi sta antipatico”. Ha smesso di fare il suo lavoro.
Proprio così, ha smesso di fare il suo lavoro, perché comincia a essere inglobato dal sistema, diventa parte dei feedback circolari del sistema. Perché questo è ciò che accade nei sistemi dinamici, e cioè che il feedback è circolare e non va mai solo in una direzione, tale per cui influenza il sistema e ne è influenzato. Nel momento in cui inizia a emettere giudizi significa che è già influenzato.
E la mia esperienza mi insegna che non tutti i committenti sono così lungimiranti da lavorarci sopra. L’approccio sistemico prevede un tempo di intervento mediamente più lungo rispetto all’intervento correttivo, o spot. Per dirne una l’intervento sistemico è l’antitesi degli interventi motivazionali. La motivazione è qualcosa che hai dentro. Quindi tu mi dici come diavolo posso dirti io quale sia la tua motivazione? No, devo assolutamente fare in modo che le pulsioni e le energie già presenti nel sistema siano il motore che porta avanti. Uno degli esempi che spesso mi capita di fare nel Beer Game è quello del traffico. Faccio la differenza tra semaforo e rotonda. Il semaforo per regolare il traffico porta in sé almeno tre regole, più le regole da utilizzare quando il semaforo non funziona: c’è il giallo, il rosso e il verde e poi le regole da utilizzare quando il semaforo non funziona, che sono quelle della precedenza, destra-sinistra, strada principale e compagnia bella. La rotonda ha una sola regola: chi è sulla rotonda ha la precedenza. Ed è geniale, perché è un intervento assolutamente sistemico: interviene solo quando serve, cioè quando c’è traffico e lo agevola seguendo il flusso di energie. Funziona per effetto dell’energia presente nel sistema, che nel sistema traffico è il comportamento egoistico degli utenti. L’energia stessa che crea il problema è quello che attraverso la rotonda lo risolve. Mentre un semaforo non intelligente è acceso anche alle due di notte e non si capisce perché devo star fermo.
Alla fine ci sono cose estremamente pratiche e la rotonda è una di queste.
I nostri sistemi sono pieni di interventi analitici che causano l’effetto del semaforo. Guarda l’economia, l’economia è costantemente affrontata in termini analitici, per questo non funziona.
Che percorso suggerisci per apprendere il modello, quindi?
Forse diversamente da altre discipline, l’approccio sistemico prevede un momento personale molto importante. Non sto dicendo che non si debba andare a dei corsi quando ci sono, anzi, è importante. Ma prima di apprendere il modello occorre secondo me un momento autoformativo di riflessione silenziosa e personale molto importante.
È un salto quantico e questo è un problema reale, noi siamo una società riduzionista e analitica. Lo impariamo dalla scuola e abbiamo difficoltà. Noi non riusciamo ad avvicinarci spontaneamente alle soluzioni sistemiche e realmente strutturali. Sento spesso parlare di soluzioni strutturali e mi viene da ridere. Perché non sono altro che soluzioni analitiche, come sempre. Quindi ci si può avvicinare al modello e studiare il pensiero sistemico quando hai realmente accettato dentro di te che lo strumento riduzionista e analitico non ti sta aiutando, cioè quando capisci che fa male, quando capisci che è dannoso. Allora secondo me ti scatta l’energia per affrontare un percorso che è tanto entusiasmante quanto, all’inizio, e dico solo all’inizio, un po’ destabilizzante.
C’è una fase, un momento di passaggio in cui dici “sì, va bene… questa è solo teoria, filosofia… lasciamo perdere…”. ed è perché non sei ancora arrivato alla parte della grammatica. Quindi serve un momento davvero di osservazione degli strumenti che in questo momento tu hai in mano per domandarti “ma mi sono realmente utili? Sto realmente migliorando la mia situazione, o quella del mio cliente, o quella del mondo, o della galassia?”. Quando la risposta è “no” è il momento dell’autoformazione, iniziando con dei buoni testi. Poi viene il momento formativo incontrando quelli che ti possono aiutare a perfezionarti. Secondo me questo è il percorso: un momento personale “intimo”, poi un momento autoformativo e poi un momento formativo.
Apro una parentesi. Ho imparato che siamo tutti molto pigri e la voglia di sviluppo personale arriva molto dopo (se arriva): l’idea di portare il Beer Game in Italia è figlia di questo schema. Il Beer Game è un momento formativo, quindi teoricamente dovrebbe venire dopo, ma di fatto io l’ho portato qui perché voglio utilizzarlo per scavalcare quel momento di pigrizia iniziale che molti, quasi tutti, abbiamo quando dobbiamo fare un cambiamento e, anche se ne vediamo l’utilità, alla fine lo mettiamo in discussione e ne mettiamo in discussione la reale bontà. Il Beer Game è un gioco, ti diverti, ti coinvolge, poi ti sconvolge, ti fa incazzare, ti meraviglia, e io spero che alla fine di quella giornata, quando torni a casa, ti compri un libro e cominci a interessarti della cosa. E non perché lo promuova io, di fatto non l’ho inventato, l’ho solo portato qui. Quindi, forse, il Beer Game è un’eccezione alla catena riflessione – autoformazione – formazione; è il primo stimolo, è carburante per accenderti il motore, la scintilla per incendiare il carburante e farti approfondire.
Tornando alla domanda, poi, in ultima analisi, tanto esercizio nel fare i diagrammi. Leggere il più possibile, leggere tanti articoli di quelli costruiti da chi conosce il modello e vedere la grammatica, cioè vedere come vengono costruiti i diagrammi. Diagrammi di flusso e cose così possono essere utili. Il pensiero sistemico ha una sua linguistica, ha un suo modo di rappresentare graficamente la realtà. Nel blog che porta il mio nome è pieno di esempi pratici, di articoli in cui affronto gli argomenti più diversi da un punto di vista sistemico e quindi anche grafico. E di fatto la grafica utilizza tre mattoncini: stock, flussi, anelli di feedback. Vengono composti in maniera diversa, fino a rappresentare un numero limitato di archetipi, cioè di strutture ricorrenti che sono alla base di tutti gli eventi e di tutti i sistemi dinamici complessi. Sono 12 archetipi, non parliamo di 5000 modelli o di 5000 diagrammi. Sono 12 diagrammi, 12 archetipi che, più spesso insieme ad altri, ci danno la codifica della realtà.
Quindi quando vai in azienda, ad esempio, senza farti mai un’idea preconcetta, le domande che fai ti devono aiutare a vedere se ci sono archetipi già in atto. E tutti gli archetipi hanno segnali di allarme specifici. Ogni archetipo ha un suo set di segnali di allarme. E ha già incorporato in sé uno o due modi di intervento che in genere è efficiente ed efficace. Ma non è detto. Devi comunque sempre verificarlo. Questa è la grammatica, questo è il tipo di grafica a cui facevo riferimento. E vedi che alla fine sono semplici. Possono diventare complessi perché magari ci sono tanti circoli di feedback, ma il fatto di avere davanti agli occhi tanti circoli ti dà anche la possibilità di capire dove si stanno concentrando i flussi, le energie, dove ci sono le resistenze e dove ci sono i punti di leva.
Quindi quando fai interventi di coaching come procedi per ricostruire l’archetipo di un sistema? Nel senso, con quali interlocutori parli?
Innanzitutto io normalmente parlo con i committenti, ma sempre chiedo di avere libero accesso a fare le interviste conoscitive con qualunque persona della struttura. Potrebbe anche essere l’usciere.
Questa è una grande differenza.
Io parlo sempre con tutti.
Ovviamente questo in buona parte allunga l’intervento e quindi in qualche modo il committente, può essere il manager, può essere il responsabile HR, uno stakeholder qualunque, magari dice “eh… Merlino così andiamo lunghi… quanto mi costa?”. E gli devi spiegare la logica che c’è dietro.
Però non c’è altro modo. Io non sono più capace di fare interventi che non siano aperti all’ascolto di tutti gli elementi coinvolti. Bada: tutti gli elementi coinvolti secondo quelli che per me in quel momento sono la delimitazione, il confine del sistema. E questa forse è la cosa più difficile. Anzi, è la cosa più delicata, non è la più difficile. È la cosa più delicata nella manualità, nell’abitudine di un coach che cerca di lavorare in termini di sistema. Perché il rischio è di individuare un’area troppo ristretta, per cui potresti lasciare fuori elementi importanti che sono quelli che ti avrebbero fatto realmente scoprire dove era la radice del problema, oppure rischi di allargare troppo i confini. Magari ho un problema su una filiale di Perugia, mi allargo, mi allargo ancora e mi convinco nella testa che il problema sta nel centro distribuzione di Tokio. Forse ho allargato un po’ troppo il sistema… Però ecco, ho stressato il concetto per provare a raccontare come è delicato il momento dell’individuazione dei confini del sistema.
Ed ecco perché parlo con le persone. A un certo punto, poi, mi rendo conto che un’intervista oltre una certa distanza dal nucleo iniziale, quindi dal primo personaggio, comincia a darmi poco valore aggiunto. Comincia a essere sterile e mi rendo conto che lì sono al confine. Non mi serve più, anzi rischio io di inserire una nuova variabile e quindi mi fermo. A quel punto metto insieme tutto quello che ho e subentra quella parte, che ti dicevo prima, dell’esercizio di mettersi lì carta e penna. Hai tutti gli elementi prima su una lista banale e poi cominci a capire qualcosa. Ad esempio con il metodo “E”, che già è sufficiente, anche se ne esistono altri: cosa influisce su questo e questo su cos’altro influisce. E cominci a tracciare il diagramma.
Capisci che stai lavorando bene quando riesci a chiudere i circoli. Perché se hai un flusso aperto qualcosa sta mancando, vuol dire che o hai inserito un elemento che non c’entra nulla, o ti manca un elemento. I circoli devono sempre essere chiusi. Possono essere circoli di circoli, ma devono sempre chiudersi, se no ti sta mancando qualcosa.
A questo punto approdiamo ai testi. Ti chiedo qualche suggerimento in merito, ma il primo di cui vorrei che mi parlassi è il tuo.
Permettimi di essere disobbediente in questa cosa, perché il mio nasce a causa di una situazione radicata nel nostro panorama editoriale. Intendo dire che di materiale sul pensiero sistemico di buona qualità (io mi permetto di giudicare, ma magari mi sbaglio) in lingua italiana è difficilmente reperibile. Faccio un’eccezione per alcuni testi di Alberto De Toni, tipo “Auto-organizzazioni” (ndr: Auto-organizzazioni. Il mistero dell’emergenza dal basso nei sistemi fisici, biologici e sociali) che è un testo sui comportamenti emergenti del sistema, dove si vede che l’autore, e non poteva essere diversamente perché persona estremamente preparata, maneggia l’argomento e ne sa dare interpretazioni ulteriori arricchendolo.
Poi in italiano c’è “Teoria generale dei sistemi” (ndr: “Teoria generale dei sistemi: fondamenti, sviluppo, applicazioni”, di Ludwig von Bertalanffy”) del ’68. Von Bertalanffy alla fine era un biologo molecolare austriaco, quindi per certi versi un po’ accademico, ma di sicuro c’è dentro l’illuminazione primigenia. A volte un po’ complicato perché c’è anche la matematica, ma lì c’è la prima intuizione sulla trasversalità della dinamica dei sistemi dinamici complessi.
E poi ovviamente il pezzo che non può mancare nella biblioteca di un pensatore sistemico è “The Fifth Discipline”, di Peter Senge. Diciamo che la dinamica dei sistemi viene sviluppata al MIT, quindi il pulpito in questo caso non è sospetto. Purtroppo quest’ultimo testo non c’è in italiano. È stato edito in Italia per pochissimo tempo a cavallo fine anni ‘90 inizio 2000 e poi completamente sparito, introvabile. Si trova facilmente in inglese e in spagnolo. È un testo, peraltro, sull’apprendimento organizzativo. La cosa curiosa è che è un capolavoro dell’apprendimento organizzativo. In cui però, parlando di questa quinta disciplina, che è il pensiero sistemico, Peter Senge si è ritrovato a scriverne la codifica più moderna, più efficace. Tanto da diventare il primo testo di riferimento del quale poi anche oltreoceano ci sono state scopiazzature.
Il mio testo (ndr: “Il grande spreco”, 2014) si inserisce in questo panorama italiano un po’ lacunoso. Non è un libro “sul” pensiero sistemico, quindi non è manualistico. Non avrebbe senso, ci sono Senge e gli altri. Invece è un libro “per” il pensiero sistemico. Ho scritto quel libro pensando all’autoformazione, al primo avvicinamento da parte di una persona a questa disciplina. Cerco di prendere per mano il lettore per raccontargli quanto sarebbe importante e vitale che lui e tutte le persone che conosce imparassero a pensare in termini sistemici. È diviso in due parti: la prima riguarda i cosiddetti unconscious bias, cioè gli errori di valutazione, così che che inizialmente io parlo a te e ti faccio capire quanto la mente sia fallace, quanto non siamo razionali. Nella seconda parte ti faccio vedere in che modo, invece, potresti funzionare. Infatti la prima parte si intitola “come funzioniamo” e la seconda “come dovremmo funzionare”. È un tentativo di avvicinare le persone al pensiero sistemico passando per la loro stessa personalità e le cose a loro note.
Senti, due parole su di te. Come nasce l’interesse per il pensiero sistemico?
Io nasco come promotore finanziario.
Mi sono ritrovato a domandarmi come funziona la testa delle persone per effetto del fatto che ne incontravo a centinaia. Unitamente a questa cosa, poi, avevo un problema personale. Ero un po’ una testa calda, una persona con un carattere estremamente difficile. Quindi ho dovuto fare un lavoro su di me per cercare di relazionarmi meglio con le persone, perché mi rendevo conto che era mia responsabilità e oltre a questo ho cercato di comprendere proprio come le persone operavano le scelte. Di fatto adesso, dopo quasi 25 anni, posso dire che mi occupo in prima battuta di formazione della scelta legata al pensiero sistemico. Quindi una volta che ho preso questa decisione di lasciare l’attività di promozione finanziaria e seguire un’azienda che dovevo seguire, perché era di famiglia e compagnia bella, ho iniziato un lungo percorso di formazione in PNL. L’ho seguita a tutti i livelli. Devo moltissimo alla programmazione neurolinguistica perché ho avuto la fortuna di farla in maniera seria, con maestri e professionisti di grande qualità. Soffro molto quando adesso vedo tutta questa cialtroneria intorno alla PNL. E invece è una disciplina seria. La PNL, così come il pensiero sistemico, va coccolata con calma, va applicata, bisogna mettercisi, bisogna studiarla tanto, ci vuole tempo.
Il pensiero sistemico poi è arrivato perché ero giunto a un punto in cui il presupposto “se vuoi, puoi” o “dipende da te”, da cui partono tutti i modelli, non mi bastava più. Peraltro ho citato anche una cosa che in realtà non mi piace…vabbè… è il titolo di un libro. Così ho detto anche come la penso… Ero insoddisfatto perché è vero che tutte queste discipline, questi modelli, questi sistemi di sviluppo personale, di crescita personale ti danno tanti strumenti, ma mi sono reso conto che alla fine, per quanto tu possa applicarli bene e farli applicare bene, non dipende solo tutto da te o da come vengono applicati, c’è sempre qualcosa che può andare storto. E non capivo cos’era. È stato un puro caso, esattamente non ricordo com’è avvenuto, ma mi ricordo il momento in cui ho capito che ero sulla strada giusta: ero incappato nel libro di Peter Senge. Mi ricordo di aver pensato, proprio mentre leggevo quel libro, che questo personaggio aveva capito tutto! Un momento veramente di estasi e di idolatria malcelata… Però in quel momento ho capito che il pensiero sistemico mi spiegava perché anche le soluzioni più ovvie, meglio ponderate, i progetti meglio pianificati, possono andar male. E perché vanno male. E quindi il pensiero sistemico è arrivato per la mia seconda fase di insoddisfazione intellettuale, diciamo così.
Che tipo di interventi fai nelle organizzazioni?
Allora, in genere mi contattano perché vogliono “migliorare la produttività”… e qui mi si accappona la pelle… Vogliono “migliorare le relazioni interne”, vogliono che faccia corsi di vendita, perché devi sempre produrre e vendere di più, devi essere sempre più efficace. Il pretesto, quindi, è il lato business. Ho alcuni clienti, veramente pochi lato life coaching, che fanno con me sessioni private, ma sono una parte estremamente residuale della mia attività. Io lavoro soprattutto sul lato business. Poi una volta che entro e ho fatto la prima intake e ho acquisito le informazioni, presento un primo piano di massima e lì spiego come opero. A quel punto o prendo il cliente, o lo perdo. Per i motivi che ho detto prima.
Quando tu dici questo significa che rispetto allo standard del coaching presenti un modus operandi un po’ diverso? Me lo potresti descrivere?
Ti dico senza filtri come mediamente mi rivolgo alle persone, ai committenti. Spesso sono dei consigli, dei collegi, raramente c’è una persona sola. Quindi in genere è sempre più di una persona.
Innanzitutto sfato il mito. Cerco di convincerli… lo so che sembra una stupidaggine… ma cerco di convincerli a non assumermi. Loro me lo dicono sempre… “ma lei vuole lavorare o no?”, perché spingo tantissimo sul fatto che io non risolverò il problema. Questa idea del consulente, del mago che entra in un’organizzazione, e sistema le cose e improvvisamente c’è un incremento del 6% sulla produzione sono tutte fandonie. Quindi, la prima cosa che faccio io è questa: sottolineo che se io devo fare il mio lavoro, come è giusto che sia, loro devono assolutamente attenersi a ciò che io chiedo loro di fare. Darò tutte le spiegazioni del caso, motiverò sempre il perché richiedo di fare qualcosa, ma sappi che se non lo fai io mi fermo. Perché scordati, caro committente, di delegare a me le responsabilità che hai tu, di far fare a me le cose che devi imparare a fare tu, o di far fare le cose sbagliate a chi non deve farle. Quindi è un percorso di crescita che coinvolge tutti, te compreso. Perché sei dentro il sistema, caro committente, non mi puoi dire che tu non c’entri nulla, che gli altri sono cattivi, che gli altri sono impreparati.
Uno dei grandi vantaggi dell’approccio sistemico è che non ci sono colpe da attribuire. È proprio una delle frasi che tu trovi scolpita nei testi sacri. Non si attribuiscono colpe. Perché se io attribuisco colpe vuol dire che ho puntato su un elemento, sull’individuo, quindi sto facendo un’azione puntuale. No, il mio obiettivo è salvare tutti, non estrometterne uno perché tu dici che questo ti risolve il problema. Perché se si è arrivati a quel punto è perché il sistema ha permesso di arrivare a quel punto. Quindi, via lui, se ce ne metti un altro sarà la stessa cosa. Perciò il mio approccio è questo: io mi muovo in questi termini, dico che ho bisogno di parlare con le persone, che voglio essere all’oscuro di tutto e quindi datemi soltanto quello che secondo voi è il sintomo, non datemi la diagnosi. Tipo “io ho questo problema, signor Merlino, perché mi sa che Tizio…” e io qui ti blocco subito, perché non voglio sapere la diagnosi. Quindi: responsabilizzazione del committente, libertà mia di parlare con chiunque. Naturalmente a tutti questi viene garantita la riservatezza, con qualunque persona io parli quello che io acquisisco rimane con me. E poi assenza di informazioni iniziali.
Questo è il modo in cui io dico loro che interverrò. Poi da quello se viene fuori l’idea di fare colloqui personali, sessioni, corsi, affiancamenti, io non lo posso sapere prima. Io posso scoprire, come è successo in un’azienda dove il problema risiedeva banalmente nel sistema di messaggistica interna e loro non se ne erano mai accorti. Una cosa di una banalità mostruosa, però ci sta, perché quando sei dentro non le vedi le cose. Non puoi vederle. In un’altra invece è stato sufficiente istituire (mi ricordo era un’azienda di Roma) il colloquio personale, ogni 15 giorni, nient’altro. Il colloquio personale. L’assenza totale di relazioni di ascolto fra la linea operativa e il middle management stava distruggendo l’ambiente. Tutte persone estremamente preparate, curriculum dal punto di vista tecnico di grande valore, persone perfettamente focalizzate, tranquille, rilassate. Ma completamente scollate. Senso di appartenenza zero. Non che sia così importante anche il senso di appartenenza, sicuramente è sopravvalutato, però un pochino ci vuole. È stato istituito il colloquio di ascolto, mezz’ora ogni 15 giorni con il tuo capo di riferimento e non per controllare come va il lavoro, quanti bulloni hai stampato o altro, no. Mezz’ora per me e per te. Caspita me la vuoi dare mezz’ora in 15 giorni per ascoltarmi? Basta. Capisci bene che io ci ho messo magari 10 giorni per capire questa cosa perché ho parlato con le persone, ma poi l’intervento è “banale” e a costo veramente ridicolo per l’organizzazione, perché mezz’ora di un supervisore e mezz’ora di un tecnico insieme quanto costerà all’azienda? Dai, ogni 15 giorni, ma non scherziamo e poi con quali benefici. Perché poi c’era tutto il discorso dei clan alla macchina del caffè, dei clan e dei gruppi, lì si creano tanti clan. I clan si formano perché all’interno della struttura non c’è motivazione e consenso, cioè non c’è un valore condiviso trasversale. Creiamolo, magari creiamo il valore dell’ascolto. Poi attenzione, dopo l’ascolto ci deve essere qualcosa, questo sì. Ma prima va creato. Cioè, non è che lo ascolti e poi non succede nulla. Infatti, dopo il colloquio, lo strumento è un appunto di 8-10 righe, non di più, che si possa leggere velocemente, sull’istanza presentata dal collaboratore e ci deve essere qualcuno che è responsabile di capire cosa farne e se quell’istanza può essere attuata. Basta, non c’è molto altro da fare, non ci sono sempre corsi di leadership da fare.
Cosa ci puoi anticipare del Beer Game?
Il Beer Game è un gioco di simulazione che nasce negli anni ‘60 al MIT, per opera di un ingegnere elettrico Jay Wright Forrester (ndr: è stato Presidente Fondatore della System Dynamics Society, nonché professore emerito al MIT), morto l’anno scorso. Uomo di un’intelligenza straordinaria, è ricordato ancora adesso come il più autorevole esponente degli studi sulle supply chain, le catene di rifornimento. Il Beer Game nasce proprio come simulazione di una catena di rifornimento, in questo caso di un prodotto che è la birra. Ogni board, ogni tabellone (che è una specie di gigantesco gioco dell’oca) vede giocare insieme quattro postazioni diverse. Il dettagliante, ossia il negozietto sotto casa, il grossista, il distributore e la fabbrica. I 4 si rapportano perché la catena porta il prodotto della fabbrica al consumatore finale attraverso i punti intermedi. Il gioco consiste nel massimizzare il profitto o meglio, come più modernamente oggi inteso, abbattere i costi, perché al giorno d’oggi è più importante abbattere i costi. Il mondo della produzione oggi ha questa “malattia” e non ha ancora capito quanto sia miope questo atteggiamento. Nel gioco si simula un anno di gestione e alla fine accadrà quello che accadrà, ci saranno le scelte che i diversi operatori faranno a uso e consumo proprio, per il proprio personale tornaconto. Il tavolo migliore è giocato in otto persone. C’è una coppia che gestisce ogni postazione, come due soci che gestiscono insieme la propria attività. E nel pomeriggio si vede insieme cosa è successo al mattino. La struttura del gioco dunque simula un sistema. Ciò che è sorprendente è che si vede come il sistema influisca sulle scelte e sulle relazioni. E allo stesso tempo si vede come le scelte e le relazioni hanno influito sul sistema. Perché il discorso è sempre biunivoco. Chiaramente nel pomeriggio io faccio tanti e diversi esempi applicati nei campi più disparati: gestione aziendale, traffico, ambiente, società, storia, biologia, ecc. Insomma come ormai hai capito il mio obiettivo è quello di introdurre le persone ad apprezzare l’approccio sistemico. E poi, dopo aver scoperto insieme tutti questi diversi sistemi dinamici complessi, di diversa caratterizzazione come ho detto, lo scopo è andare a vedere come tutte quelle dinamiche siano le stesse che c’erano nel Beer Game al mattino. E quindi a dimostrazione plastica che le leggi del sistema sono dappertutto, sono sempre le stesse e, come dico spesso, siamo messi di fronte a una scelta: possiamo non occuparci del sistema ma il sistema si occuperà di noi. Che tanto non si scappa. Chiaramente le persone, a quel punto, avendo toccato con mano che nonostante pensassero di aver operato scelte razionali di fatto non lo sono state, nel mio auspicio dovrebbero sospendere il giudizio e cominciare a domandarsi “ma niente niente questo cretino ha detto qualcosa che forse se comincio a studiarla e ad applicarla miglioro la mia vita e la miglioro agli altri?”.
L’ultima curiosità personale. Io sono un appassionato scacchista, gioco, faccio tornei e mi diverto. Mi vengono in mente gli scacchi proprio perché è un gioco che ha regole semplici ma che da vita a schemi molto complessi e che ogni volta necessitano di soluzioni creative. Ti è mai capitato di incontrare l’applicazione della dinamica dei sistemi agli scacchi?
In realtà no, e di fatto sarebbe un’applicazione spuria, ma la tua è una straordinaria intuizione che mi permette un chiarimento. La difficoltà del gioco degli scacchi, come tutte le difficoltà dei sistemi complessi, non deriva direttamente dal numero dei componenti, come più o meno in maniera istintiva e spesso superficiale siamo portati a credere. Ma dal tipo di relazioni che legano i componenti. Un sistema di 1000 persone può essere molto più fluido, efficace ed efficiente di un ufficio di 10, se in quell’ufficio le relazioni sono complicate. C’è un passaggio interessante che faccio nel Beer Game proprio sulle relazioni nei piccoli gruppi. Comunque è un bell’esempio questo degli scacchi. È dinamico perché le posizioni reciproche mutano continuamente, come nei sistemi dinamici.