AVVERTENZA.
Probabilmente leggendo questo articolo vi irriterete.
Vabbé, pazienza: a ben vedere, se così dovesse essere, siete proprio tra coloro che ne hanno bisogno.
Iniziamo.
Presente le mappe con il classico “voi siete qui”?
Ecco, l’ultima volta in cui ne ho vista una è stato un paio di settimane fa all’ingresso delle Grotte di Frasassi, una delle numerose meraviglie assolute del nostro Paese, troppo “nostra” e troppo poco straniera per essere magnificata come si dovrebbe: vuoi mettere la fontana del Bellagio a Las Vegas?
Prima della visita non l’avevo notata e in ogni caso non mi avrebbe stimolato alcuna riflessione: in fondo cosa mai avrebbe potuto dirmi?
Ma all’uscita…
All’uscita avevo ancora occhi e spirito pieni di quanto avevo visto.
La visita, seppur molto ben organizzata e di durata superiore a un’ora, mi era parsa persino troppo breve: fosse dipeso da me mi sarei fermato molto più a lungo in contemplazione silenziosa e commossa di quella “grande bellezza”.
Se cercate un modo per capire quanto siamo piccoli e presuntuosi, una visita in quei luoghi può servire allo scopo.
Alla fine è stato come riemergere da un mondo incantato.
Quel sottile filo di malinconia che sovente accompagna il commiato da ciò che è meraviglioso e lontano dalle cure quotidiane, mi ha portato, come d’abitudine in questi casi, a domandarmi per cosa valga davvero la pena vivere, domanda tanto frequentata quanto colpevolmente fugace, con annesse risposte contraddittorie e puntualmente dimenticate.
Sia come sia, quell’effetto collaterale che pure conosco così bene ha sortito l’effetto di amplificare oltremodo lo sdegno che già mi aveva investito poco prima ma che ora colpiva inesorabilmente, io ormai orfano della estasiata distrazione regalatami a ogni passo da quella magnificenza.
Tralasciando la sconcertante incapacità delle persone (stavo per dire “italiani” ma immagino che poi mi taccereste di qualunquismo) di seguire le benché minime regole di comportamento per quanto ripetute a nastro dalla guida, una cosa in particolare mi aveva davvero nauseato: l’uso dei cellulari.
Come potete ben immaginare non mi riferisco a squilli di telefonate o di messaggi (non potrei, visto che, ringraziando il cielo, nel ventre di Madre Terra scordati le tacche) ma i “click” delle foto, quelli sì.
E il punto sono le foto, non i click.
Al di là del fatto che non se ne potrebbero fare se non nei punti preposti e indicati dalla guida (anche questa raccomandazione del tutto disattesa), ciò che mi domando è: ma si può sapere cosa diavolo ti fotografi?
Mi spiego meglio.
Stai camminando in gruppo, sei su un percorso obbligato per direzione e tempi, hai pochi secondi per sostare davanti a miriadi di misteriosi dettagli del mondo sotterraneo, bello da fermare il fiato, e tu cosa fai? Ti affretti a prendere quel ridicolo telefono, che ti ha già abbondantemente rincretinito in superficie, inquadri frettolosamente e scatti, senza attenzione, senza amore, senza fremito, senza ricerca.
E via subito di corsa a riprendere il passo degli altri che, come te, si erano già attardati poco prima.
Tu non fotografi, tu accumuli bulimico.
Pensateci un attimo.
Perché lo fate? Cosa vi regalate? Quale esigenza soddisfate? Dove siete quando lo fate?
Dove siete nel momento in cui vi giocate quei pochi secondi che avete per puntare tutto su un cavallo così perdente? Una foto senza valore né prezzo che, con altre migliaia, finirà nel dimenticatoio della memoria vostra e del vostro ultimo iPhone pagato a rate.
Dove siete quando perdete quell’attimo che potrebbe inumidirvi gli occhi se solo foste vivi e presenti?
Vi immaginate forse sul divano di casa vostra, da lì a dieci anni, un po’ più maturi o ingrigiti, vicini alla persona amata a ricordare quella giornata d’estate sfogliando lo schermo del vostro nuovo dispositivo alla moda?
Oppure dietro a un proiettore in casa di amici? O dove altro?
O magari sul vostro social preferito (e qui mi trattengo tantotantotanto…) a contare i like, portatori malati di dopamina dei poveri?
Dove siete quando lo fate?
Forse in un momento imprecisato della vostra vita futura (auspicabilmente reale e non virtuale) in cui riguardare quelle misere foto ed emozionarvi a distanza come non siete stati capaci di fare quando era il momento giusto, quando eravate lì?
Dove siete quando vi selfate a un aperitivo?
Dove siete quando scattate a raffica in un posto di vacanza o in una serata fuori porta?
Dove siete quando fotografate il piatto al ristorante?
O quando non vi guardate neanche in faccia, quattro, cinque, sei commensali chini sulle proprie chat, in attesa che il cameriere faccia il suo lavoro?
Dove siete quando parcheggiate i vostri figli, futuri disadattati, davanti a sei pollici di tata? Dove diavolo siete?
Chi siete diventati?
Si può sapere cosa cercate, cosa vi serve?
Dico davvero, cosa vi serve, cosa vi manca in quel momento e più in generale?
Fate le cose per viverle, per accumularle o per raccontarle? O per raccontarvele?
E non offendetemi con la storia che un’immagine vale più di mille parole perché se così fosse e guardassimo nella vostra galleria ne troveremmo a miliardi, di “parole”: ammazza, avete tante cose da dire!
Tante e sgrammaticate.
Maledizione, fermatevi.
Fermatevi a pensare, a guardare, a respirare, a stupirvi.
Prendetevi il tempo dell’adesso e se volete fare una foto va bene, ma allora pensate a cosa deve dire e dirvi, come deve vibrare, cosa un giorno dovrà regalare a voi o a una persona cara o a chiunque altro.
Provate a dare invece che a prendere, per altro senza gratitudine né gioia.
Ma davvero pensate che la vita sia un album di figurine?
Ce l’ho, ce l’ho, mi manca…
Che tristezza, che sconfortante pochezza.
Se ancora sapete come si fa, provate a ritagliare istanti unici, solo vostri, veri, anche difficili o difficili da descrivere: un giorno saranno la cosa più preziosa che avete e scoprire che non ce ne sono o che sono di tolla sarà orribile (e ve lo meritereste).
Se poi avrete la pulsione di raccontarli, perché lì vicino c’è qualcuno con cui vale davvero la pena condividere, va benissimo, fantastico, ma allora vi dovrete sforzare perché quella persona merita il meglio del vostro ricordo e delle vostre emozioni, non una patetica, squallida istantanea, frettolosa, piatta e muta, priva di attenzione e di stupore, ciclostile di chissà quante altre.
A proposito: se quella persona non meritasse i vostri sforzi perché mai dovrebbe essere lì con voi? Ma qui entriamo in un altro argomento, quello delle relazioni inutili o di maniera, quelle riempitive, insufficienti a colmare quei vuoti così avidi di vacuità digitale cui puntigliosamente anelate per naturale conseguenza.
Lasciamo perdere va’, altro male endemico dei nostri tempi.
Trovate un linguaggio che “parli” realmente e provate a dire qualcosa che valga la pena ascoltare o ricordare.
Sarà una storia? Una foto? Non importa, andrà comunque bene.
L’importante è che dietro quel “racconto”, comunque raccontato, ci sia un momento vero, un’esperienza piena, vissuta a coordinate di spazio e tempo in cui c’eravate davvero e in ascolto della vostra anima: allora sì, varrà la pena ascoltarvi. Per il resto, siete solo noia.
Sì, siete davvero terribilmente noiosi, indistinguibili da duplicati di altri voi che sgomitano per lo stesso cono di luce, sempre più sovraffollato di gente vociante e scomposta, ammassati gli uni sugli altri, sudati, le membra aggrovigliate come in un girone dantesco.
Non posso credere che non lo sappiate.
I “like” degli altri non valgono niente, sono niente: sono merce senza valore, effimeri, inflazionati, opportunistici, reazioni compulsive a un’ossessione che vi accomuna, quella per l’unicità e la visibilità, quella stessa unicità che si allontana quanto più la cercate omologandovi agli altri.
Sareste comici se non foste penosi.
I cuoricini, le manine che applaudono, i fiorellini, le parole di apprezzamento e affetto: tutto ciarpame che non migliora la vostra vita di una virgola ma che vi dà la sensazione che sia invidiabile o invidiata e, per questo, migliore di quella che è.
L’effetto però dura poco perché la realtà potete anche non confessarla ma reale rimane e allora via, alla ricerca di una nuova dose di finta “esistenza”, sempre meno faticoso che cambiare quella vera da dentro.
Quando ricevete apprezzamenti in condizioni di tanta superficialità dovreste sapere che sono solo una richiesta dissimulata di fare altrettanto per loro alla prima occasione utile, non sono altro che l’accensione fiduciosa di un credito che sperano da lì a poco di riscattare, la medesima stucchevole supplica, persuasi che abbiate con loro un debito di apprezzamento.
Che circolo perverso.
Che minuetto umiliante.
Dove siete adesso?