In un articolo intitolato “Using Systems Thinking to Increase the Benefits of Innovation Efforts” Daniel Aronson, membro del System Dynamics Group presso il MIT, introduce il tema dei benefici che il pensiero sistemico può apportare nelle decisioni strategiche aziendali, a ogni livello (il principio alla base è perfettamente valido per ogni altro tipo di organizzazioni sociali, politiche o istituzionali).
Gli sforzi di innovazione e “incremento della produttività” (locuzione, quest’ultima, abusata e spesso distorta più o meno dolosamente… per averne un chiaro esempio leggi qui) si scontrano, quasi senza eccezione, con una realtà molto più complessa di quella abitualmente osservata e considerata. Quando il contesto reale viene affrontato con azioni dettate da visioni limitate, il costo che certamente ne conseguirà sarà alto, “imprevisto” o “imprevedibile”, contraddittorio e foriero di confusione (quando non di ulteriori danni): sono i naturali comportamenti e inevitabili reazioni del sistema, ai quali non possiamo sottrarci se non preparandoci adeguatamente.
Il pensiero sistemico è un campo di studi orientato alla comprensione dei sistemi dinamici complessi quali sono quelli umani sviluppato allo scopo, fra gli altri, di indirizzare efficientemente gli interventi e gli sforzi di innovazione.
L’osservazione sistemica (analisi sistemica è una contraddizione in termini, direi quasi una blasfemia :) ) determina i punti in cui il cambiamento può avere il maggiore impatto sulle prestazioni di un’organizzazione ponendosi l’obiettivo primario di creare valore duraturo al minor costo possibile: questo è il vero vantaggio competitivo!
“L’approccio del pensiero sistemico è profondamente differente da quello delle forme tradizionali di analisi. Invece di concentrarsi sui singoli pezzi di ciò che viene studiato il pensiero sistemico si concentra sui rapporti di retroazione tra il dettaglio studiato e le altre parti del sistema.
Quindi invece di isolare parti più piccole di un sistema, il pensiero sistemico adotta una visione più ampia e considera un maggior numero di interazioni.”
– D. Aronson –
Nel suo articolo Aronson utilizza l’esempio che segue.
Immagina un’azienda agricola che veda in pericolo il suo raccolto a causa di un insetto nocivo.
Sappiamo tutti quale sarà la soluzione tipicamente adottata: trattamento del terreno con i pesticidi.
Questa soluzione è apparentemente logica: cura l’effetto di una causa, è velocemente applicabile e altrettanto velocemente ottiene (iniziali) risultati.
Questa azione crea un Circolo di Riequilibro (detto anche di Bilanciamento):
Come forse ricordi, i segni + e – stanno a indicare che la grandezza alla fine della freccia cresce in maniera rispettivamente diretta o inversa in relazione a quella che si trova all’origine.
Il problema della soluzione “pesticidi“, tipica del ragionamento a una dimensione, lineare e analitico, è che oltre ad aggredire gli insetti nocivi è anche responsabile di danni (o di sconvolgimenti della catena alimentare) ad altre specie di insetti e non solo.
In altre parole, o per meglio dire “in altra grafica”, questo è ciò che succede:
Si crea un Circolo di Rafforzamento che alla lunga porterà la popolazione degli insetti responsabili dei danni alle coltivazioni a crescere più di quanto fosse all’inizio: questo specifico modello di eventi è talmente diffuso nei sistemi dinamici complessi da essere noto come uno degli Archetipi Sistemici, il Fixes that Fail – Soluzioni che Falliscono.
Nel prossimo articolo parleremo proprio di lui…
Esiste un altro aspetto di grande importanza ed è l’errore di percezione del motivo per cui, a un bel momento, il problema ritorna, persino in forma peggiore: raramente (per non dire mai) viene individuato in maniera corretta ma sta di fatto che l’elemento colpevole è il “ritardo”, una variabile sistemica fondamentale.
Quando la popolazione di insetti nocivi torna a crescere, infatti, sarà passato abbastanza tempo da aver “confuso le acque”, da impedire cioè all’osservatore di cogliere il legame causa-effetto che esiste tra l’applicazione iniziale dei pesticidi e il risultato finale, contraddittorio e controintuitivo; la “connessione causale” si è cioè… persa nel tempo.
Non ne sei convinto?
Nel 1939 gli USA iniziarono a usare il famigerato DDT – diclorodifeniltricloroetano – un pesticida assurto agli onori della cronaca per essere il composto che sconfiggeva la malaria poiché sterminava le zanzare portatrici della malattia: nel 1972 fu bandito perché tossico (in Italia solo nel 1978, con il consueto italico ritardo… scusa ma la mia nota caustica ce la devo mettere per forza :) ).
Ma il DDT fu davvero efficace? Ridusse realmente la popolazione degli insetti destinatari del trattamento?
I dati dicono di no.
A metà degli anni ’50 le dosi utilizzate di DDT arrivarono a essere il 300% di quelle iniziali per via della comparsa di insetti che avevano sviluppato resistenza al composto; ora prova a ripercorrere il grafico precedente alla luce di questo nuovo dato.
Ma non basta: oltre a ciò si scoprì che i residui degli insetticidi clororganici si accumulavano lungo la catena alimentare tanto da essere ancora presenti, all’inizio degli anni ’70, nei tessuti e nel grasso dei campioni prelevati dal corpo degli uccelli che se ne nutrivano.
E alla fine si convenne che come trattamento non era efficace: gli animali insettivori, fondamentali per tenere sotto controllo la popolazione di zanzare, diminuivano sempre di più (per es. si rilevò un grave assottigliamento dei gusci delle uova degli uccelli che così non riuscivano a riprodursi) e gli insetti, che nel frattempo avevano sviluppato (loro sì!) la resistenza, aumentarono(*).
Nota di cronaca: alla fine del decennio i metaboliti da DDT erano ancora presenti negli esseri umani… ma questo è un altro ramo del discorso.
Torniamo a noi e aggiorniamo dunque il grafico:
Ed eccolo lì: un altro Ciclo di Rafforzamento!
Chiaro adesso?
La prima lezione di cui far tesoro è che un’azione, per quanto ponderata e frutto di approfondite analisi (e basta con l’analisi!) non avrà mai un effetto soltanto perché è esercitata in un sistema dinamico complesso (come, per es., un’azienda); se da un lato ciò può spaventare, dall’altro rappresenta però una grande opportunità, a patto che si sappia di cosa si sta parlando.
Gene Bellinger, uno degli esponenti più autorevoli della letteratura sistemica, in un commento all’articolo di Aronson afferma che la prima essenza di un’osservazione sistemica sta in una parola: “AND”, per noi “E”.
Allo scopo di iniziare le persone a questa disciplina di pensiero Bellinger suggerisce di immaginare il responsabile dell’azienda agricola che si pone domande del tipo: “E questo pesticida, quali altre influenze può esercitare?”, oppure “E quali altri elementi possono influenzare la popolazione degli insetti nocivi?”.
Generalizzando l’approccio, le due domande base, cioè un primo filtro decisionale da adottare, diventa:
1. E su questo elemento cos’altro influisce?
2. E su cos’altro influisce questo elemento?
Affrontare un problema disponendosi da un angolo di visuale di questo tipo può prevenire i danni collaterali imprevisti; sì, lo so, spesso professiamo di farlo, ma rimarrà solo una buona intenzione se non l’affiancheremo all’utilizzo degli strumenti del pensiero sistemico: ciò è ineluttabile.
Per esempio, nel nostro caso, l’agricoltore potrebbe pensare di introdurre una popolazione di insetti antagonisti ma prima di farlo si dovrebbe domandare: “E cos’altro controllano questi insetti?” oppure “E cos’altro potrebbero mangiare se decimassero la popolazione degli insetti di cui si nutrono?”.
Ok… adesso mi sembra quasi di sentire il rombo della grande obiezione in arrivo: se il metodo “E” consiste nel sospendere momentaneamente l’azione al fine di indagare la più ampia rosa di effetti, non c’è il rischio che il processo si allunghi all’infinito annullando di fatto la concretezza dell’azione?
Ottimo, ti ringrazio della domanda :) …questa è quella che nel pensiero sistemico è definita “Determinazione dei confini”, una delle competenze più delicate e importanti di un pensatore sistemico: avremo modo di parlarne spesso a partire già dal prossimo articolo.
Per adesso mi basta sottolineare la miopia di cui sono affette molte scelte strategiche nelle aziende, nelle organizzazioni e istituzioni in generale. Malate di analisi, numeri, report e fretta (quando non di semplici abitudini o impressioni) esse improntano la loro azione a criteri monodimensionali, piatti e lineari, dimentiche di quanto invece la realtà, le sue interconnessioni e le ripercussioni degli eventi siano drammaticamente “tridimensionali” e sfuggenti: tutto ciò fatto salvo, naturalmente, il diritto al piagnisteo-post-disastro… oops, mi è scappata ancora la polemica, ‘sorry ;) !
Muoversi in un mondo/mercato quale è quello di oggi, così frenetico, volubile e imprevedibile senza dotarsi di una solida preparazione sistemica è completa follia, del tutto simile a quella che, in preda a manie suicide, ci vedesse avventurarci in un territorio inesplorato sprovvisti di bussola e zaino.
La formazione sistemica nelle organizzazioni, siano esse pubbliche o private, non può più essere considerata accessoria e ancor meno è accettabile che essa venga ancora sciattamente e superficialmente etichettata come un costo!
”E su cos’altro influisce la mancanza di formazione sistemica?”
(*) Consiglio la lettura di “Primavera Silenziosa” di R. Carson, una pietra miliare dell’ambientalismo scientifico e informato. Un capolavoro.