GUEST POST
di Valentina Nardi
Promosso da poco ispettore della squadra degli agenti carcerari “ALPHA”, Jeferson Walkiu è un uomo di grande umanità e questo affiora dallo sguardo, lo stesso per ogni uomo che sia un collega, un sottoposto, un detenuto o un discepolo della sua comunità religiosa; e dallo sguardo passa alle mani, alla fatica del lavoro, alla forza degli abbracci.
Sa prendersi cura degli altri, per questo è un leader stimato. Ha una forte religiosità che probabilmente lo aiuta a compensare la frustrazione di non poter essere altrettanto presente per i detenuti.
Ed è anche il protagonista del film “Custodians” (A GENTE) di Aly Muritiba – vincitore della quinta edizione del premio cinematografico “Ambienti di lavoro sani e sicuri”, istituito nel 2009 dall’Agenzia Europea Per la Salute e Sicurezza nei Luoghi di Lavoro.
Il docufilm racconta la storia delle persone che vivono e lavorano in un carcere brasiliano, è incentrato sulle storie e i disagi degli agenti, ma i vissuti dei reclusi irrompono dalle feritoie delle celle, denunciati in poche parole:
– “nessuno si prende cura di noi”
– “siamo abbandonati”
– “se qualcuno sta morendo qui muore e basta, giusto?”
– “ho deciso di rovinare la mia di vita”
Walkiu non vuole svolgere il suo lavoro come un semplice Guardiano, come un uomo che unicamente esegue gli ordini ricevuti, sente il bisogno di diventarne il Custode, di proteggere ciò che è fragile e prezioso: il lavoro e il suo fine, l’uomo.
L’intera struttura organizzativa del carcere, dall’altro lato, rischia di implodere. Gli agenti sono sottoposti a continue limitazioni (poche manette, poco personale, nessun medico etc..), ci sono delle ampie divergenze con l’amministrazione sul concetto di professionalità, ma soprattutto non vengono ascoltati e, cosa ben più grave, le loro opinioni sono giudicate trascurabili.
Dice un collega a Walkiu: “Nessuno parla! Non ci vuole un genio per capire che qui le cose finiranno male!”
Tutto questo genera una frattura interna con la popolazione dei carcerati che minaccia la sommossa. C’è una spaventosa tensione, le ultime direttive dell’amministrazione stabiliscono che non possono più stringergli la mano. Ci sono stati i primi tumulti e gli agenti vogliono armarsi per potersi difendere.
Gli agenti sono i “lavoratori al fronte”, l’ultimo anello di un sistema che si interfaccia con la popolazione reclusa. Sono quelli che ci mettono la faccia e che conoscono i processi nei loro dettagli quotidiani. Meglio di chiunque altro hanno esplorato tutte le inefficienze procedurali, facendosi un’idea ben chiara di come migliorare le cose.
Ogni lavoratore è fonte di un’intelligenza distinta, di un punto di vista nuovo su processi che il tempo standardizza e che l’organizzazione dall’alto non vede più. Ogni lavoratore può colmare questa distanza e alimentare il processo di rinnovamento continuo della qualità del servizio, sempre più vicino alle esigenze dell’utente, alle sue richieste, ai particolari.
Walkiu tenta di rendere più unita e professionale la sua squadra, di portare le loro istanze e le inefficienze organizzative a conoscenza dell’amministrazione, ma non sortisce effetto. Di fronte all’ennesimo ordine superiore incoerente con le procedure interne alla squadra, decide di dimettersi dal ruolo di ispettore e di tornare ad essere un semplice agente, dando un segnale forte.
“Per il sistema amministrativo quello che succede nel sistema operativo della prigione è irrilevante.[…] Se non posso fare ciò che è giusto, preferisco andarmene. Non prendo ordini che non hanno senso.”
I confini tra carcerati e agenti scompaiono, entrambi sono prigionieri di un sistema che li giudica irrilevanti. La prigione è l’inutilità, la mancanza di senso. Che cosa deve fare una persona pienamente umana per poter lavorare bene?
Dice Walkiu spesso ai suoi collaboratori: “Avete fatto un errore perché dovevate parlarvi!”
Si tratta di dialogare, una capacità di cui ognuno è intrinsecamente dotato, che s’impara una volta per tutte e si utilizza in tutti i sistemi umani: in famiglia, nella società, con gli amici. La disponibilità a capirsi e l’attenzione alle opinioni dell’altro è premiata in ogni ambiente e produce sempre collaborazione e piacevolezza. Appartengono a tutti esperienze di squadra positive come lo sport, una gita, un lavoro sociale svolto assieme a persone diverse.
Eppure nel lavoro la ricerca di dialogo, di definizione, di partecipazione alle decisioni sono azioni spesso osteggiate e considerate fuori luogo. Come fossero altri i luoghi del dialogo, dell’autenticità, del coinvolgimento. Il lavoro è uno svolgimento di attività individuale, nel quale non occorre mettere cuore e anima, pena la reclusione. Tutto si appiattisce, si standardizza e diventa insapore.
Queste parole non vanno d’accordo con il bisogno economico delle imprese, che si nutre di innovazione, qualità e produttività. Tutto potrebbe essere molto più semplice, la difficoltà sta nel lavorare senza dialogo e collaborazione, non il contrario; non aumenta i costi, ma li riduce.
Come nel carcere, ogni sistema organizzativo ha risorse inesauribili per rinnovarsi: le idee e la passione dei suoi lavoratori.
Il Benessere Organizzativo non vuol dire che ogni lavoratore sta bene perché non ci sono problemi.
Le difficoltà e lo stress sono il motore dell’azienda: le scadenze, le pressioni, i servizi da offrire con qualità, le risorse spesso scarse. Benessere in un’azienda vuol dire riuscire a immettere quotidianamente il carburante per far funzionare il motore. Dialogo e collaborazione sono questo carburante. Allora lo stress non è altro che un’opportunità data all’uomo per migliorare attraverso il contributo di tutti.
Questa è la strategia opportuna per risultare innovatori e produttivi nel mondo del lavoro, in qualunque settore e soprattutto in questo momento storico.
Ce lo dicono anche le Ricerche Europee (ESENER) che riportano come prima fonte di stress citata dai lavoratori intervistati il bisogno di una riorganizzazione del lavoro. Il lavoratore non vuole più essere un Guardiano del proprio lavoro ma vuol diventarne il Custode, colui che lo protegge e ne cura il buon esito. E i sistemi organizzativi hanno bisogno di questo tipo di lavoratore, quelli che non lo capiscono vanno in crisi, una crisi di cui non occorre avere paura perché porta al cambiamento. Saranno le inefficienze a distruggersi e ci saranno nuovi germogli che bisogna saper vedere e coltivare.
Per valutare lo stress lavoro-correlato in un’azienda occorre ripercorrere la radice etimologica del termine.
Valutare vuol dire affermare un valore. Non si tratta di rilevare quanto malessere c’è, ma quanto valore c’è e quali sono gli ostacoli che non permettono al valore già presente di dispiegarsi in qualità e produttività. La valutazione è un’opportunità offerta ad un sistema per comprendersi, rimuovere le inefficienze e rinnovarsi.
E questo lo si fa con il dialogo e la collaborazione, dando rilevanza ai primi Custodi del lavoro: i lavoratori.