Ultimamente mi capita di osservare i più disparati fatti della realtà e ritrovarmi a fare paralleli, di contenuto o di senso, con altri eventi in altri ambiti, la qual cosa non fa che amplificarne dentro di me la risonanza.
Non è facile parlarne senza cadere in una retorica lacrimosa o stucchevole, così, inizialmente, avevo pensato di scrivere senza pormi troppe domande, di getto, di pancia: se sei te stesso, mi sono detto, avrai almeno la chance di non somigliare troppo a qualcuno, non fosse altro perché non siamo tutti uguali, dicono.
Ma no, meglio di no; parlare a ruota libera quando sei davvero alterato è pericoloso, possono scapparti parole troppo pesanti.
E allora mi metto a contare un migliaio di cifre dopo la virgola del pi greco, faccio un bel respiro e ci riprovo.
…….. ………. ………. ……….
No, mi sa che non ha funzionato.
Sono ancora furioso.
Ok, vediamo lo stesso come va.
Nella provincia cinese del GUIZHOU esiste una pratica aberrante (fra le tante che ci caratterizzano) che consiste nel legare un bue a un palo saldamente conficcato nel terreno per celebrare un rito (rito? non scomoderei questo termine, non è meritato) che ha dell’incredibile.
A volte penso di non essere un tipo tanto sveglio perché mi forzo a guardare negli occhi l’abisso delle nostre infamie sapendo perfettamente che poi ne porterò il veleno dentro per parecchi giorni e, spesso, diverse notti (come per tutti o quasi, poi, il ricordo si affievolisce e l’egoismo della mia quotidianità torna ad avere il sopravvento); tuttavia non demordo e continuo a farmi del male.
Farmi del male??
Ma che significa?
“IO” mi faccio del male? E allora, i protagonisti dei racconti che leggo o dei video che guardo?
Esiste in me uno strano, forse distorto, senso del “dovere minimo” che mi porta a credere che farmi carico di quella sofferenza riflessa (un pallido riflesso!) sia, appunto, il “minimo dovuto” nei confronti di quegli esseri cui facciamo davvero del male, direttamente o indirettamente, per opere od omissioni (wow, sembro un predicatore!). Un po’ come dire: se mangi una bistecca, almeno abbi il fegato di vedere come ti arriva in tavola.
Non cambierà nulla? Non lo so, ma so per certo che così sarebbe se tutti volgessero lo sguardo altrove (Edmund Burke docet).
La giostra infernale inizia con un essere immondo, forse umano (anzi, ahimé, certamente umano, circondato da plaudenti e sorridenti subumani persino peggiori del carnefice), che colpisce il povero animale sul collo con una sorta di machete; la vittima inizia a correre ma, per via della corda non può farlo che intorno al palo: sul lato opposto trova un altro spurgo di fogna, dicono anch’esso umano, che lo colpisce nello stesso punto e il giro ricomincia.
La cosa non dura poco.
Un bue è un bue.
È forza pura.
È natura che esplode.
Non è facile averla vinta (e sarebbe impossibile ad armi pari!)
La ferita si allarga sempre di più, con una lentezza diabolica.
Ed è sempre più profonda: una macellazione approssimativa su carne viva che gira in tondo.
Ma ha una forza inimmaginabile, il bue.
Forse qualcuno degli astanti lo ricorda quando passava nel campo davanti alla loro casa, aggiogato, a tirare l’aratro per permettere al bipede parassita che lo guidava di coltivare la “sua” terra.
O quando trainava carretti carichi all’inverosimile, con quei muscoli possenti, tesi allo spasimo, donati “all’uomo” per alleviare le sue fatiche.
Ma oggi no, oggi è giorno di festa e il bue deve fare qualcosa di più.
Una festa orribilmente lunga, come solo la vita, a volte, sa essere.
Perché un bue è un bue.
È forza pura.
Ed è dignità assoluta, orgoglio ancestrale.
Lo osservo cadere e rialzarsi, con la testa quasi staccata, le ossa del collo in vista, frantumate, la carne a brandelli, le cartilagini distrutte, sporco di fango impastato con il suo sangue raccolto a terra dall’ultima caduta.
Sembra impossibile, il suo corpo ormai è quasi… due corpi, separati.
Eppure non si ferma.
Cade e si rialza.
E si rialza ancora.
E poi ancora.
Dio mio.
E prego. Dai, smettila, non farlo più, lasciati andare, lasciati andare, metti fine a tutto questo, lascia che finisca.
Ma no, non un bue.
Io sì, io mi sarei arreso al primo colpo. E così i suoi luridi boia.
Ma non un bue. Un bue mai.
Lo guardo meglio e sento che urla qualcosa, immagino sia rivolto al cielo ma non posso esserne certo perché la sua testa è quasi staccata e non potrebbe alzare lo sguardo neanche volendo; comunque sì, è di certo rivolto al cielo: qui non capiscono la sua lingua, semplicemente la mangeranno più tardi.
Urla, e non si ferma.
Inizialmente non capisco cosa dice, la sua voce è straziata dal dolore.
Poi, improvvisamente, capisco e mi diventa chiara.
“Morirò solo dopo aver sconfitto la morte che volevate darmi voi”
Sì, è così che ha detto! ha detto proprio così…
Alla fine, completa la sua missione: dimostra, per l’ultima volta, la più luminosa e regale, che lui è un bue e gli altri, quelli intorno a lui, sono… soltanto uomini.
Così si ferma, e decide che può bastare.
Ha scelto lui, ha vinto lui, un’altra volta.
Come tutte le volte in cui il terreno sembrava troppo duro da arare o un carico troppo pesante da trasportare: un bue non perde mai, specie se cerchi di annientarlo, di umiliarlo.
Gli aguzzini credono di aver vinto perché hanno come unico, povero, ridicolo metro di misura “vita o morte” e non il modo in cui la prima è condotta e la seconda è accolta; se solo lo capissero diventerebbero buoi.
Beh, un paio di giorni fa ho letto un articolo di Deborah Dirani, “La miseria della vita” (ne consiglio la lettura a questo link), e ho (ri)pensato alla forza, alla resistenza orgogliosa e fiera di uomini e donne: nella mia mente, ferita appena poche ore prima da quell’orrore, il parallelo è stato spontaneo, naturale per intensità e simbolismo.
Così ho riflettuto sulle volte in cui ho sentito parlare di “popolo bue”; confesso che io stesso, talora, ho usato questa locuzione, specie quando mi sono riferito alle scelte della massa e ai suoi comportamenti appiattiti e acritici.
William Winwood Reade, storico ed esploratore britannico del secolo XIX, acutamente ha detto: “Come il singolo atomo, l’uomo è un enigma: come insieme, egli è un problema matematico. Come individuo è un agente libero, come specie è frutto della necessità.”
Insomma, il comportamento della “massa” è prevedibile e credo che ciò corrisponda al vero poiché risponde (anche) alle leggi dei sistemi, ma io da oggi, tutte le volte in cui sentirò parlare di “popolo bue”, non potrò fare a meno di pensare a chi è schiacciato dal tallone dei tiranni del mondo moderno, “civile” e globalizzato, capricciosi per i loro privilegi e privilegiati per le loro indebite ricchezze, ebbri di potere, unti dal loro personalissimo dio, ciechi per la distanza dal quotidiano sordo dolore degli infelici, irridenti verso la miseria dei molti; sono i sepolcri imbiancati del consenso estorto, sideralmente lontani dalla fulgida dignità delle persone colpite ogni giorno, più volte al giorno, dalle affilate armi bianche dell’indifferenza, dell’egoismo e dell’ipocrisia: non è necessario aprire una ferita per scoprire che sotto c’è sangue e che le mani se ne lordano quanto quelle che torturano il bue.
Come quel bue, ci sono persone, intere popolazioni, che per gran parte della vita dissodano il terreno delle giornate aride e trasportano il fardello indicibile di un’esistenza senza sbocco, a girare in tondo, legati alla corda di pali “venduti” loro come alberi della cuccagna, per amore di un figlio, di una moglie, di un padre, o per la loro stessa dignità.
Già, dignità: non potrebbero farcela, se non l’avessero.
A fine giornata, raddrizzano sempre la schiena dolente per distenderla subito dopo e tentare di riposarsi in vista della nuova traversata dell’indomani.
E questa è la parte difficile: trovare le parole giuste per esprimere il mio disprezzo profondo, viscerale per chi apre ferite così ripugnanti, siano esse sanguinanti o no.
Spero di poter sempre meritare di essere popolo.
Spero di poter sempre avere dignità da bue.
p.s.: vai qui se vuoi saperne di più, se vuoi pagare il dazio del “minimo dovuto” e se vuoi firmare la petizione online.