Comincio a non sopportare più questi economisti del virtuale, i titolati del disastro, i luminari delle teorie smentite dai fatti, gli opinionisti da slogan virali (e letali), competenti per definizione e incompetenti per risultati. E forse sopporto ancor meno i proni, acritici e impreparati porgitori di microfoni e scranni da cui far loro sentenziare eresie logiche e storiche, condanne inappellabili per chi un lavoro ce l’ha (magari ancora per poco) o per chi quel lavoro l’ha perso o lo sta cercando per la prima volta.
Sono i guru dell’economia da curriculum, bocconiani o non, dalla memoria corta o poco capiente, che popolano i nostri media con la prosopopea e la supponenza di chi crede di sapere, abituato a essere trattato come se davvero così fosse, quelli che «se solo avessi io in mano le redini del mondo» o «non è così che si fa, ma invece si dovrebbe…».
Sono i Picasso del teorico, dei modelli da libri di testo, polverosi come le loro idee anacronistiche, lontane dalla realtà storica contemporanea e moderna; gli inconcludenti dalle soluzioni “di scuola” (inconcludenti per gli altri, non certo per loro stessi), sono i miopi consapevoli (e quindi dolosi) o quelli inconsapevoli per pochezza personale. Una pochezza che assurge a dogma grazie ai riverenti spacciatori di informazioni tossiche, i loro megafoni di sistema, gli araldi asserviti.
Mi sono accorto di essere ormai vittima di puntuali sfoghi di orticaria ogni volta che sento parlare di “produttività del lavoro”, sempre e solo nella stessa declinazione: quella della “flessibilità“.
Si inizia con il mantra della riorganizzazione dei processi e dell’ammodernamento tecnologico per finire, con spensierata regolarità, a parlare solo di flessibilità (e, ahinoi, ad adottarla).
Farò un solo esempio (non di più, tanto sono fra loro strutturalmente simili, quando non uniformi), giusto per capirci insomma, ma ne puoi trovare quanti ne vuoi, e chissà quanti ne hai già sopportati.
Cerco, in tempo reale, nel “mare della rete” e pesco a caso il primo che trovo…
…
…
…eccone uno!
13 marzo 2014 – Servizio Pubblico, La7
Irene Tinagli, un curriculum di tutto rispetto: laurea alla Bocconi (ahi!), assistente presso l’Università Carlos III di Madrid, ricercatrice presso la Carnegie Mellon University di Pittsburg (la stessa dello straordinario e compianto Randy Pausch nonché “madre” di dodici premi Nobel… misteri della vita) per non dire delle collaborazioni con diverse associazioni o fondazioni di variegata connotazione politica.
Ora è Deputata delle Repubblica…(mi scapperebbe una emoticon ma poiché, per amore di stile, cerco sempre di usarne il meno possibile, immagina tu quella che preferisci); l’area politica di “militanza”, poi, non dovrebbe sorprenderci.
In questo intervento l’economista ripropone alle nostre acerbe menti l’ormai consunta geremiade secondo la quale il problema della competitività delle nostre (coraggiose, aggiungo io) aziende risiede nella mancata ristrutturazione dei processi produttivi.
Potrebbe essere un’affermazione con un suo senso se non fosse che…
…ma andiamo con ordine.
Dice letteralmente (min. 2:02): «…quindi la flessibilità a volte significa semplicemente poter negoziare a livello aziendale gli orari, i turni: non è che la flessibilità debba essere sempre interpretata solo come l’art. 18 e il dramma, a volte è semplicemente un modo di riorganizzare i processi in maniera veloce, rapida, snella con gli orari e con i turni, non sono… sono piccole cose…».
Piccole cose (!), magari anche “veloci, rapide, snelle” … e poi tira in ballo la Germania, come da rituale.
Ti consiglio di ascoltare attentamente tutto l’intervento e di notare come l’arguta accademica-deputata arrivi alla sapiente affermazione seguendo il previsto percorso retorico; visto che ci sei noterai anche i brillanti contrappunti del conduttore fra i quali spicca luminoso un bel: «…qualità!».
Qualità?? (altra emoticon…).
Ma sanno di cosa parlano?
Beh, non riesco ancora a decidere se è peggio quando le cose non le sanno (ed è grave dato il ruolo che ricoprono o che pretendono di ricoprire) oppure se le sanno ma fanno finta di niente (e forse è peggio perché allora è malafede): questa litania della revisione o reingegnerizzazione dei processi (termine odioso anche da digitare, mi sbaglio sempre!) non ha nulla a che vedere con la qualità né, tantomeno, con la sopravvivenza o lo sviluppo di un’azienda o di un sistema industriale.
E la storia lo dimostra.
Il cosiddetto “movimento della qualità”, che ottenne i suoi migliori risultati negli USA all’inizio degli anni Novanta, fu una teoria di management innovativa, che coinvolgeva fattivamente le maestranze e i gruppi di lavoro nei processi decisionali, mirava a consolidare un rapporto tra lavoratori e azienda in cui quest’ultima non pagasse le persone per il loro tempo, ma per le loro competenze; i singoli si sentivano rispettati, l’ambiente di lavoro se ne giovava in misura straordinaria, all’interno delle grandi aziende nascevano i “circoli della qualità” come fulcri della partecipazione e del contributo delle persone agli obiettivi e all’immagine aziendali.
Purtroppo, la cosa durò poco.
Parallelamente alla Teoria della Qualità si sviluppò infatti il BPR, Business Process Reengineering, una… “ideologia” che aveva il suo focus sulla progettazione dei flussi di lavoro e sui processi di business, sulla riduzione dei costi operativi e sull’innalzamento dei ricavi. Obiettivo: la crescita aziendale a oltranza.
Fu una sorta di epidemia, una corsa forsennata verso l’Eldorado della gestione finanziaria, una febbre virale, famelica di risultati meramente numerici: già solo nel 1993, ben il 60% delle aziende Fortune 500 dichiarava, negli annuali documenti di gestione, di aver avviato uno processo di reingegnerizzazione o di averlo già messo in programma. [ Hamscher, Walter: “AI in Business-Process Reengineering“, AI Magazine Volume 15, Number 4, 1994]
Oggi sappiamo bene che, alla fine, il tutto si sarebbe “ridotto” a una ristrutturazione dei processi globali, e non all’ottimizzazione continua dei sottoprocessi, più vicina ai paradigmi della qualità.
Persino Michael Hammer, uno dei fondatori del movimento BPR insieme con James Champy, dovette ammettere: «Non ero abbastanza intelligente per fare questo. Riproponevo il mio background da ingegnere con un insufficiente apprezzamento della dimensione umana. Ho imparato che, invece, è fondamentale.» [White, Joseph: Wall Street Journal, 26 novembre 1996]
Parola d’ordine: business a ogni costo. Traduzione: miopia.
Ma non finisce qui: come ogni buon systems thinker sa, a una causa seguono più effetti, di lungo periodo, a volte talmente lungo che non riusciamo più a vederne la vera radice iniziale, il germe all’origine del focolaio che torna a colpirci con tutta la sua forza.
Il BPR infatti, o le estemporanee e approssimative teorie di gestione manageriale che a quello si ispirano se possibile peggiorandolo, hanno portato all’espulsione degli operatori più anziani e capaci (quindi più “costosi”) o, spesso e più semplicemente, di quelli cui si poteva rinunciare grazie a una mal concepita idea di upgrade tecnologico della produzione o della allocazione delle risorse; ciò ha concretizzato, a tutti gli effetti, la rottura del sottinteso “patto sociale” alla base del rapporto che esiste(va) tra lavoratori e “capitale d’impresa”, rendendo i primi tanto incapienti da non poter più garantire la “domanda” necessaria a soddisfare l’”offerta” del secondo. Geniale!
Senza andare troppo nel barboso, ci basti qui ricordare il passo successivo dello sfacelo, la soluzione che amplifica il problema: il principio di “idoneità al lavoro” e di riconversione.
Robert Levering, nel suo ottimo libro, A Great Place to Work (1988), tratteggia il “dramma” con grande plasticità: «Poiché gli imprenditori non potevano più garantire la sicurezza del posto, ora avrebbero dovuto offrire ai dipendenti l’opportunità di maturare quelle esperienze che, nel momento in cui lasciavano la loro società, li avrebbero resi idonei al nuovo lavoro. Propagandata come sostituto del vecchio patto sociale, l’idoneità al lavoro trovò pochi sostenitori. I lavoratori vedevano nell’idoneità al lavoro una sorta di cinico espediente il cui scopo era quello di farli sentire soddisfatti della loro stessa disponibilità al sacrificio».
1988: 26 anni fa!
La reingegnerizzazione e l’idoneità al lavoro (e men che meno la “flessibilità”) non sono le risposte alle istanze presentate da un mercato sempre più veloce, globalizzato, competitivo, mutevole, che vuole sempre più a sempre meno, ma sono anzi benzina su quest’incendio, un incendio che sta carbonizzando il nostro presente e il nostro futuro perché antepone il “numero” alla “persona”; l’inganno sta proprio qui, nell’inversione, come spesso accade, della causa con l’effetto: sono le persone a creare i numeri, non il contrario.
Mettere al centro i numeri invece delle persone è come credere che contando pietre e facendo disegni questi diventino cattedrale…
Cari i miei economisti (e sedicenti esperti) da riga, calcolatrice e compasso, se proprio volete raccontarci la favola, abbiate almeno il pudore di raccontarcela tutta o, meglio, provate a sospendere, per pochi istanti, la percezione di infallibilità delle vostre teorie e apritevi alla possibilità che, forse, ci avete capito davvero poco, che, forse, avete bisogno di ampliare i vostri limitati orizzonti, che, forse, dovreste osservare la realtà (che pretendete di descrivere) in un’ottica sistemica e non più analitica!
Nel frattempo io vado a prendermi un antistaminico…
Abbiamo la stessa allergia (purtroppo non esiste antistaminico afficace).
A proposito dei fantomatici accademici potrebbe tornare utile, per chi non l’avesse già visto, il video
CAMBIARE I PARADIGMI DELL’EDUCAZIONE – Il pensiero divergente
http://www.youtube.com/watch?v=FV7XS-1ix8Y#t=18
Ciao Stefano, straordinario contributo il tuo! Robinson ha tratteggiato una mirabile visione sistemica, pur sollecitandoci al “pensiero divergente”. Devo assolutamente decidermi a cambiare l’ordine di priorità dei libri che ho nella mia wishlist, fra cui proprio il suo “The Element”… grazie davvero!