C’è una cosa che, quasi immancabilmente, mi viene richiesta dagli imprenditori (o dai manager di riferimento) quando mi espongono il loro caso aziendale e i loro obiettivi: aumentare (o far nascere) nei loro collaboratori il senso di appartenenza all’azienda, al “marchio”.
Ho imparato che dietro questa esigenza si nascondono due finalità tra loro profondamente diverse: una è quella di “intruppare” i collaboratori, fare cioè in modo che in nome dell’azienda e per l’azienda essi siano disposti (o peggio, proni) a livelli maggiori di impegno e sacrificio; l’altra, mira a liberare il potenziale di ciascuno confidando nel fatto che, quella richiesta, sia una delle condizioni necessarie perché ciò possa accadere.
Cosa vi viene da pensare tutte le volte che sentite dire (anche fino alla noia) che l’Italia è un paese costellato (e caratterizzato) da piccole e medie imprese?
Certo, esistono oggettivi e gravi problemi di mercato, di equità fiscale, di accesso al credito, di costo del lavoro e tutti gli altri aspetti che ben conosciamo; oltre a questo però penso anche alle molte piccole-medie aziende che nella mia carriera di consulente ho incontrato e che si trovavano a un livello di crescita oltre il quale sembrava loro di non poter riuscire ad andare.
Quante volte avrò sentito dire frasi del tipo “…che poi vede Merlino, il lavoro ci sarebbe pure ma è che non possiamo permetterci di assumere altro personale…è come un cane che si morde la coda…”
Beh, non sapete quante volte abbiamo poi scoperto, lavorando insieme, che il personale necessario ce l’avevano già!
Le persone possono fare molto di più e meglio di quanto facciano abitualmente sia se, come detto, vivono un forte senso di appartenenza (ATTENZIONE: il senso di appartenenza è sopravvalutato, ma non ne parliamo adesso), ma sia anche se sotto l’egida del marchio esse sono delegate, responsabilizzate, stimolate a dare un contributo sì in tempo e fatica ma anche in idee e metodi!
E ciò vale non solo quando il problema risiede nella difficoltà di accettare una commessa a causa della scarsità di personale, ma anche quando una situazione stagnante richiederebbe innovazione, idee alternative o riconversioni.
Esiste una funzione diretta tra delega e crescita dell’azienda: senza la prima (esercitata correttamente) la seconda non potrà mai andare oltre un certo livello, per altro facilmente prevedibile; naturalmente la sola delega non può essere sufficiente ma è certo che senza di essa non vi può essere crescita.
In un interessante libro dal titolo “Un gran bel posto in cui lavorare” (ed. Sperling & Kupfer), Robert Levering a seguito di un’amplissima ricerca all’interno di grandi aziende in odore di eccellenza, afferma che la parola chiave in un ambiente lavorativo straordinario è “fiducia”. D’accordo su tutto: orgoglio, appartenenza, libertà, famiglia, trasparenza, coerenza, condivisione, esempio, visione, missione e chi-più-ne-ha-più-ne-metta…d’accordo su tutto (o quasi), ma la chiave sta nella fiducia, in due direzioni, sia dei manager verso i collaboratori, sia viceversa.
La fiducia permette la delega.
La delega chiede responsabilità.
La responsabilità crea l’appartenenza.
L’appartenenza porta libertà.
E la libertà “libera” risorse e potenzialità inespresse.
E quale preziosissima risorsa, fra le altre, si libera grazie a questo processo?
Abracadabra, proprio quella del leader…
In un mondo (mercato) come quello attuale, dove ciò che è vero oggi rischia di non esserlo più domani, quale dovrebbe essere la prima occupazione del leader?
Quella di controllare? O quella di sobbarcarsi, come spessissimo accade, parte delle funzioni e dei compiti degli altri perché “…l’ho sempre fatto io…e poi non mi fido…e chi può farlo” ?
Un manager (o un leader, definizioni rese strumentalmente diverse da una sottocultura imprenditoriale) deve saper fare, al minimo, due cose:
1. gestire il cambiamento
2. rendersi “inutile” il prima possibile
Capite cosa intendo ?
Un leader è il rompighiaccio verso il futuro non il Cerbero del presente e per farlo ha bisogno di tempo che, se dedicato alla supervisione, al controllo e al presenzialismo continui, ovviamente non avrà più.
Quando liberiamo le risorse interiori dei nostri collaboratori di fatto liberiamo le nostre, liberiamo il nostro tempo!
Quando liberiamo le risorse interiori dei nostri collaboratori di fatto liberiamo le nostre! Share on XNell’intuizione originaria di un fondatore o nella capacità visionaria di un leader sono nascoste le chiavi dell’adattamento, della flessibilità, della possibilità di sopravvivere come direbbe A. De Geus, “in un ambiente perturbato” come quello attuale, e quindi di salvaguardare l’eredità dell’azienda e la vita di coloro che vi operano.
Se qualcuno è entrato a lavorare con voi spero e credo che sia stato perché lo avete scelto fra altri, o no? E perché avete scelto proprio lui?
Vedete: c’è differenza tra “pagare qualcuno per il suo tempo” e “pagarlo per le sue capacità” !
Se lo paghiamo per il suo tempo è solo il suo tempo ciò che ci darà: il punto è che per comprare il tempo basta uno stipendio, per “comprare” le capacità serve altro.
Voi che ne dite ?